Lettera Pastorale del Vescovo Ivo Muser nell’anno di S. Giuseppe

Lettera Pastorale del Vescovo Ivo Muser nell’anno di S. Giuseppe

(testo originale estratto dal sito della diocesi)

Con Giuseppe di Nazareth attraverso quest’anno e la nostra vita

Care sorelle, cari fratelli nella nostra Diocesi di Bolzano-Bressanone!

L’8 dicembre 1870, solennità dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria, papa Pio IX proclamò San Giuseppe patrono della Chiesa universale. Esattamente 150 anni dopo, sempre nella festa dell’Immacolata, Papa Francesco ha stabilito che un “Anno di San Giuseppe” venga celebrato in tutta la Chiesa cattolica dall’8 dicembre 2020 all’8 dicembre 2021. La sua Lettera apostolica “Patris corde”, che vuole promuovere l’amore per San Giuseppe e raccomandarlo come intercessore e figura esemplare, contiene molti impulsi spirituali che vanno ben oltre questo “Anno di San Giuseppe”.

“Giuseppe, suo sposo, che era uomo giusto“ (Mt 1,19)

I Vangeli raccontano molto poco dell’uomo che chiamiamo San Giuseppe. Non ci è stata tramandata una sua sola parola. Giuseppe non è un uomo di grandi parole; è un uomo dei fatti. Di lui si dice: egli “fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa“ (Mt 1,24).

È l’uomo che non è assente dove c’è bisogno di lui, proprio di lui. Giuseppe è un uomo che viene dal silenzio ed è presente: attraverso una sensibilità attenta, con un atteggiamento chiaro e con un’energia pratica. Combina tenerezza e forza. Ed è per questo che Dio gli affida la cosa più preziosa della storia della salvezza: “Il bambino e sua madre”. Troviamo questa affermazione ben sei volte nel Vangelo di Matteo!

Cosa c’è nel cuore di quest’uomo? “Giuseppe, suo sposo, che era uomo giusto“– così lo caratterizzano le Sacre Scritture (Mt 1,19).

Vuol dire: è un uomo retto, pienamente affidabile e integro, un uomo concentrato su Dio e su ciò di cui gli altri hanno bisogno, una persona che va nella direzione giusta. Giuseppe non capisce il grande mistero di Maria, ma non giudica dalle apparenze; è sensibile a una verità più profonda che trascende lui e tutti noi. Giuseppe si muove sempre nel solco di ciò che il popolo d’Israele ha ereditato da Abramo e che nella sua esistenza non ha mai smesso di imparare, spesso in situazioni difficili e dolorose. Della vocazione e del cammino di Giuseppe – come di tutta la storia del popolo d’Israele – fa parte il buio dell’incomprensibilità di Dio.

In Giuseppe, il giusto, diventa chiaro che non si può avere Gesù senza le sue radici ebraiche e che l’ebraismo è la madre terra della fede cristiana. Se solo noi cristiani lo avessimo sottolineato e riconosciuto più spesso nella storia! Gesù è un ebreo. Maria e Giuseppe sono ebrei, come gli apostoli e i primi discepoli di Gesù. L’antisemitismo per i cristiani è un peccato grave e una bestemmia, come i papi Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco hanno ripetutamente sottolineato. L’antisemitismo è come tagliare la radice della fede che ci sostiene (cfr. Rom 11).

Che importanza ha allora Giuseppe per il bambino Gesù, che non discende da lui ma è nato da Maria per un potere che viene da Dio? È importante per integrare questo bambino nella promessa fatta dal profeta Natan al re Davide, e per dargli il nome di “Gesù”. Un nome che esprime e riassume tutta la sua missione in una sola parola: “Egli salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1,21). Quanto ha trasmesso Giuseppe al bambino e giovane Gesù – possiamo ben dirlo senza cadere in false speculazioni – dell’atteggiamento fondamentale di Abramo e del popolo ebraico!

Giuseppe, compagno di cammino e intercessore

Nel corso dei secoli San Giuseppe è diventato il patrono di molte cause: un segno della devozione nei suoi confronti e della sua importanza. Molti uomini e donne in tutto il mondo lo venerano come loro santo patrono. In Alto Adige Giuseppe è il nome maschile più comune.

Invochiamo Giuseppe come patrono della Chiesa universale, affinché noi come Chiesa ci affidiamo alla Parola di Dio, ci concentriamo veramente su Gesù e sul suo vangelo, su ciò che ci chiede, sulla sua volontà, sul suo mistero. Si tratta della SUA Chiesa, non di una Chiesa secondo la nostra volontà e i nostri piani. La Chiesa non è un partito o un’impresa, è “segno e strumento” (Concilio Vaticano II) e deve mantenere viva la domanda di Dio in questo mondo. Siamo chiamati ad essere una Chiesa missionaria e non autoreferenziale. Preghiamo per l‘intercessione di San Giuseppe: Signore, risveglia la tua Chiesa e comincia da me.

Invochiamolo come patrono della famiglia, affinché il matrimonio e la famiglia siano valorizzati e sostenuti attraverso il nostro incoraggiamento ai giovani a fondare una famiglia e a donare vita nuova. Invochiamolo affinché coniugi, genitori e figli possano sperimentare e praticare quanto sia importante essere attenti gli uni con gli altri, essere misericordiosi, perdonare e chiedere perdono. Siamo tutti plasmati dalla famiglia da cui proveniamo e sappiamo anche che la famiglia perfetta e ideale non esiste, perché siamo esseri umani imperfetti. Per noi come Chiesa è significativo che anche quando un matrimonio fallisce resti possibile un cammino di riconciliazione e di misericordia. Le persone coinvolte hanno bisogno della vicinanza e dell’amicizia, anche dell’accompagnamento benevolo e comprensivo nella pastorale.

Invochiamolo come patrono degli uomini e dei padri, affinché gli uomini e i padri sappiano comportarsi come tali, non si sottraggano alle loro responsabilità e non siano assenti dove c’è bisogno di loro. Quanto rimane attuale l’immagine del “custode” e del “protettore”, in special modo della dignità, dello sviluppo e dei diritti dei bambini e dei giovani! “Il mondo ha bisogno di padri, rifiuta i padroni, rifiuta cioè chi vuole usare il possesso dell’altro per riempire il proprio vuoto; rifiuta coloro che confondono autorità con autoritarismo…“, scrive papa Francesco nella sua lettera apostolica dedicata a San Giuseppe. La “festa del papà” proprio il 19 marzo può ricordare alle nostre famiglie, alla società e alla Chiesa quanto siano indispensabili i padri e gli uomini, e quanto sia manchevole una “società senza padre”, non ultimo anche per lo sviluppo religioso dei bambini e dei giovani.

Invochiamolo come patrono contro la violenza sulle donne, affinché sia fermo e concorde il nostro “no” a tutte le violenze contro le donne. Come società ci deve far vergognare il fatto che troppi guardino ancora dall’altra parte e spesso addirittura minimizzino questa violenza. La violenza contro le donne spazia dall’oppressione psicologica alle aggressioni fisiche più gravi, che a volte sfociano in disastri familiari. Anche lo sfruttamento sessuale è una grave ferita alla dignità delle donne. Può avvenire sia all’interno della propria famiglia che attraverso la prostituzione. Papa Francesco ha detto nell’omelia di Capodanno 2020: “Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio. Dal corpo di una donna è arrivata la salvezza per l’umanità: da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità.“

Invochiamolo come patrono dei lavoratori, affinché siano garantite giuste condizioni di lavoro e di retribuzione; affinché le donne siano pagate come gli uomini per il loro lavoro; affinché le leggi del mercato, della redditività, dell’aumento dei profitti non siano le uniche a valere; affinché la proprietà e il capitale siano al servizio delle persone e non viceversa. E affinché non si dimentichi mai che l’essere della persona viene prima del suo lavoro e della sua prestazione: non viviamo per lavorare, ma lavoriamo per vivere. La persona e i suoi bisogni vanno molto al di là dei concetti di efficienza, produttività, profitto e attività. Il lavoro è molto più di una semplice occupazione! L’impegno per posti di lavoro buoni e sicuri ha conosciuto una nuova urgenza con la crisi da Coronavirus. Quanto è importante sostenere ora chi ha veramente bisogno di aiuto!

Invochiamolo come patrono per una buona morte, affinché si possa vivere in modo tale da lasciare questo mondo riconciliati; affinché possiamo dare conto della nostra vita nella certezza che la nostra morte diventi quell’incontro decisivo per cui siamo stati creati e destinati. Invocare San Giuseppe come patrono dei moribondi corrisponde anche all’imperativo di una pastorale vicina alla persona, in tempi in cui cresce la paura fondata di molti anziani e malati di dover affrontare in completa solitudine le loro ultime ore di vita.

Invochiamolo come il patrono della nostra terra, affinché la nostra comunità, a cui questo territorio bello e ricco è stato affidato come casa terrena, sappia trattare il creato con gratitudine, responsabilità, rispetto e moderazione; affinché si scelga una buona e vera convivenza tra i gruppi etnici e si lavori in tal senso; affinché la nostra sia una terra concessa reciprocamente e non negata a qualcuno, non abbia nulla in comune con tendenze nazionalistiche e non degeneri mai più – come nel periodo del fascismo e del nazionalsocialismo – in un’ideologia di “sangue e suolo”. E non dimentichiamo mai: il nostro atteggiamento verso persone di altre culture, lingue, mentalità e religioni inizia sempre nella nostra testa. C’è un legame molto stretto tra pensare, parlare e agire, nel bene e nel male.

Invochiamo San Giuseppe anche in questa pandemia, affinché si possano comprendere le scelte personali e comunitarie che questo tempo particolare, difficile e doloroso ci richiede. Nonostante tutto e attraverso tutto, questa esperienza del Covid è anche un tempo di salvezza per le persone di fede, un tempo di guarigione dal quale possiamo uscire cambiati e rafforzati: se lo vogliamo. Nell’istituire l'”Anno di San Giuseppe” nel bel mezzo della pandemia, papa Francesco pensa alle tante persone “che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né delle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo… Tutti possono trovare in San Giuseppe, l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta, un intercessore, un sostegno e una guida nei momenti di difficoltà. A tutti loro va una parola di riconoscimento e di gratitudine.“

“Credo che Dio operi attraverso i suoi santi“

Una persona che ricorre in modo particolare all’aiuto di San Giuseppe è papa Francesco. Ricordo bene quando, durante la mia visita “ad limina” nell’aprile 2013, un mese dopo la sua elezione, confidò a noi vescovi come nel suo studio ci fosse una statua di San Giuseppe. La particolarità di questa statua è che mostra un Giuseppe addormentato. Papa Francesco raccontò di come fosse solito annotare le sue grandi preoccupazioni su pezzetti di carta, che metteva poi sotto il cuscino di San Giuseppe. Sorridendo, il Papa aggiunse: “I foglietti di carta sono sempre di più”. E poi, con una confidenza disarmante, simile a quella di un bambino: “Credo che Dio operi attraverso i suoi santi. Sono fermamente convinto che San Giuseppe, la cui missione nella vita era quella di proteggere Maria e Gesù, non dimentichi me, voi e tutta la Chiesa”.

Come segno di preghiera e di venerazione, in questo “Anno di San Giuseppe” celebrerò l’Eucaristia nel duomo di Bressanone (19 marzo) e in quello di Bolzano (1° maggio) e in tutte le otto chiese parrocchiali della nostra diocesi dedicate a San Giuseppe, e affiderò il cammino della nostra Chiesa locale al “patrono della Chiesa universale”. Invito tutti i fedeli, le comunità parrocchiali e le comunità religiose ad approfondire il significato di San Giuseppe all’interno della storia della salvezza nella preghiera, in incontri biblici, nei colloqui di fede e nell’annuncio.

Per intercessione di Maria, Madre di Dio, e di San Giuseppe, vi benedica e vi accompagni il Dio Trino, che ci conosce, opera in mezzo a noi e non ci dimentica. Con questa fiducia e con questa speranza possiamo avvicinarci ai giorni pasquali di passione, morte, sepoltura e risurrezione di Gesù, alla festa tra tutte le feste.

 

Il vostro vescovo

+ Ivo Muser                       Solennità di San Giuseppe, 19 marzo 2021

 

 

Allegato alla lettera pastorale – Un possibile segno nell’ “Anno di San Giuseppe“

In occasione dell'”Anno di San Giuseppe”, propongo di pensare all’introduzione del 19 marzo come festa pubblica ufficiale in Alto Adige. La competenza per determinare questo passo non spetta naturalmente alla Diocesi di Bolzano-Bressanone, ma solo al Consiglio provinciale e alla Giunta provinciale. Per questo atto sono necessari un consenso comunitario e una decisione politica.

Da un punto di vista legislativo tale passo è possibile. Il regolamento nazionale relativo alle festività concede infatti ad ogni comune un giorno festivo per la propria festa patronale, stabilita per legge (ad esempio a Roma la festa di Pietro e Paolo il 29 giugno, a Trento San Vigilio il 26 giugno, a Milano Sant’Ambrogio il 7 dicembre, a Firenze, Genova e Torino San Giovanni Battista il 24 giugno, a Napoli San Gennaro il 19 settembre, ecc.). In Alto Adige, con delibera del Consiglio provinciale e della Giunta provinciale, il lunedì di Pentecoste è stato dichiarato giorno della festa patronale comunitaria. Con delibera del Consiglio provinciale e della Giunta provinciale sarebbe quindi possibile in qualsiasi momento sancire la festività del 19 marzo, che dal 1772 è la festa del patrono della nostra terra, al posto del lunedì di Pentecoste. Mentre tutti gli altri giorni festivi in Italia sono di competenza dello Stato o sono regolati dal Concordato fra la Santa Sede e la Repubblica Italiana, la determinazione di una simile “festa patronale” pubblica è di competenza del Consiglio provinciale e della Giunta provinciale dell’Alto Adige.

In aggiunta: a partire dal Concilio Vaticano II, il lunedì di Pentecoste non esiste più nel calendario liturgico della Chiesa. È stato cancellato senza essere sostituito. La Domenica di Pentecoste, la solennità della discesa dello Spirito Santo sulla Chiesa nascente il cinquantesimo giorno dopo la Pasqua, chiude e corona il periodo pasquale e tutto il ciclo delle feste pasquali. Il lunedì di Pentecoste ha il rango liturgico di un giorno feriale; il 19 marzo, invece, è una solennità della Chiesa.

Perchè faccio questa proposta?

Le domeniche e i giorni festivi non sono solo “giorni liberi”, ma un bene culturale di grande importanza al servizio della comunità, di valori che uniscono, del senso di appartenenza, della fede. Abbiamo bisogno della domenica e delle nostre feste con le opportunità sociali, familiari, culturali e religiose che offrono.

Considero oggi un compito importante della Chiesa difendere ciò che non è orientato solo al consumo e al profitto, salvaguardare le nostre feste e soprattutto la domenica, la festa originaria della Chiesa, la Pasqua settimanale.

La proposta di ragionare sull’introduzione del giorno dedicato a San Giuseppe come festività pubblica in Alto Adige in sostituzione del lunedì di Pentecoste si basa su una convinzione: non abbiamo bisogno di più giorni liberi, abbiamo bisogno della domenica e delle nostre festività!

Nel rispetto della nostra società pluralista, aggiungo: le feste religiose e civili sancite per legge vanno a beneficio di tutte le cittadine e i cittadini. Se questa proposta dovesse trovare consenso, non verrebbe tolto nulla a nessuno. Tutti continueranno a godere di una “festa patronale” per legge, come previsto dal regolamento nazionale delle festività.

 

+ Ivo Muser                       Solennità di San Giuseppe, 19 marzo 2021

Lettera pastorale per la Quaresima 2021

Lettera pastorale per la Quaresima 2021

Vescovo Ivo Muser

Mercoledì delle Ceneri, 17 febbraio 2021

 

Cercare e trovare Dio in un mondo vulnerabile

Care sorelle, cari fratelli nella nostra Diocesi di Bolzano-Bressanone!

Nella Quaresima 2020, un anno fa, il coronavirus si è manifestato nella nostra realtà. Dapprima l’abbiamo tutti sottovalutato. Posso ancora sentire le tante voci: non sarà così grave, è solo un’influenza, non ci colpirà così tanto, non certo da noi!

Uno sguardo pensieroso al passato…

Molto rapidamente ci siamo resi conto che eravamo tutti sulla stessa barca. Questo virus ci ha costretto a un’esperienza che nessuno di noi aveva mai fatto prima. Ci è stato detto di rimanere in casa e di spostarci dal territorio del proprio Comune solo per un motivo necessario e giustificato; una società di consumo molto liquida, che in molti settori punta costantemente a una crescita ancora maggiore, si è quasi fermata, è entrata in crisi, per non dire che stava andando in pezzi. Molte delle immagini che abbiamo visto riportate dai media sembravano da fine dei tempi: centinaia di migliaia di morti in tutto il mondo, bare accatastate, sistemi sanitari completamente al collasso. Niente lezioni frontali nelle scuole, alberghi e ristoranti chiusi, cantieri fermi, pochi negozi, niente concerti… Un tempo con tanti “chiuso”, “annullato”, “non avrà luogo”. Un tempo imposto, fatto di “senza”. Per la prima volta nella storia della Chiesa, in numerosi Paesi non si sono svolte celebrazioni con i fedeli. Non era mai successo prima. Per molti è stato particolarmente doloroso non poter prendere commiato dai defunti nel modo abituale.

Mantenere la distanza e tuttavia vivere la vicinanza

La crisi da Covid continua a tenerci nella sua morsa e incide duramente sulla nostra vita quotidiana: dobbiamo rinunciare a cose che abbiamo imparato ad amare, dobbiamo cambiare la nostra routine quotidiana, vediamo compromessa la libertà di vivere la nostra vita, la nostra libertà di muoversi e viaggiare è limitata, la situazione lavorativa è insicura, ci sono conseguenze finanziarie, e ci sono chiare restrizioni anche nella nostra vita ecclesiale.

La pandemia e le sue conseguenze ci mostrano quanto sia importante lo stare assieme con rispetto e solidarietà. Per ragioni igieniche, è necessario osservare le regole e mantenere il distanziamento: in molti però hanno scoperto che questo dovere non deve portare ad allontanarci gli uni dagli altri, hanno nuovamente percepito che l’attenzione alle situazioni e ai bisogni degli esseri umani, la partecipazione al destino della persona e l’aiuto reciproco devono ora addirittura aumentare. La distanza di protezione non di rado ha portato a una maggiore vicinanza al prossimo e a una reciproca empatia. Le dolorose esperienze di isolamento dei malati gravi e dei moribondi hanno rattristato e colpito molti di noi. Nonostante tutto e attraverso tutto, molte persone hanno cercato la vicinanza: parenti, infermieri, assistenti, medici, ma anche sacerdoti, diaconi, religiosi, operatori pastorali negli ospedali e nelle case di riposo. E ancora tutti gli uomini e le donne che fanno volontariato nelle nostre parrocchie. Le tante cose buone che abbiamo sperimentato in un tempo incerto, difficile e doloroso – spesso in silenzio – sono un motivo di gratitudine e di speranza.

Dov’è Dio?

In questi mesi di coronavirus spesso mi è stato chiesto in lettere, mail, telefonate e conversazioni personali: perché è successo tutto questo? È forse una punizione di Dio? Dio ha dimenticato il suo creato e noi umani? Sa almeno come stiamo? Cosa ha a che fare tutto questo con Dio?

Non è facile rispondere a queste domande pressanti. Le risposte rapide e sbrigative non sono sempre le migliori. Ma è utile prendere in mano le Sacre scritture: quasi ovunque nella Bibbia si raccontano le esperienze di persone con il loro Dio. In queste storie di vita non solo la felicità e la salvezza, ma anche la disgrazia e la sventura sono onnipresenti: la guerra e la lotta, la disperazione e l’impotenza, l’ingiustizia, la violenza e la morte. Dunque lo sperimentare con dolore la lontananza di Dio non viene sbiadito o tralasciato, bensì espresso e narrato. E molti racconti biblici lo testimoniano: in tutto questo, le persone hanno trovato la loro relazione con Dio.

Non da ultimo, le esperienze di Gesù di vicinanza e lontananza da Dio sono così importanti per noi. Nella sua passione e sulla croce Gesù sperimenta tutta la forza dei momenti di eclissi della luce di Dio. Una citazione biblica mi colpisce ogni volta: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì “ (Ebr 5,8).

Anche nell’angoscia più profonda, nella notte tra il Giovedì Santo e il Venerdì Santo, Gesù non rinuncia alla sua relazione con Dio. “Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu “ (Mc 14,36). Persino il suo grido prima della morte in croce, “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?“ (Mc 15,34) è una preghiera di fiducia in Dio in quello stato di estrema solitudine (salmo 22).

Le persone di fede sanno cosa ne è scaturito: superamento della morte, resurrezione, vita nuova. La croce è l’inizio del mattino di Pasqua. Con essa anche tutta la fede cristiana sta in piedi e cade: il Risorto è il Crocifisso! Il teologo e metropolita greco-ortodosso Giovanni Zizioulas riassume così questo centro del credo cristiano: “Il Venerdì Santo senza la Pasqua è un inferno. La Pasqua senza il Venerdì Santo è una bestemmia. E può essere poco cristiano cantare l’Alleluja troppo presto”.

Tutto questo non ci dà una spiegazione agevole del perché accade ciò che stiamo vivendo. Anche per i cristiani il male nel mondo rimane un mistero doloroso. Il non capire accompagnerà sempre il nostro percorso verso la comprensione: tutte le risposte scatenano nuove domande. Ma nella resurrezione di Gesù ci viene donata una speranza: c’è un Dio che ci salva e nel quale siamo al sicuro nonostante tutto – non passando oltre la croce, ma attraverso la croce! Penso spesso a una donna semplice, confinata a letto da anni, che a me giovane prete disse: “Gesù non ha spiegato la croce, l’ha portata. Poiché egli porta le ferite sul suo corpo, io posso aggrapparmi a lui con le mie ferite”.

Dove troviamo Dio?

Guardiamo a Gesù di Nazareth, il Cristo che si è fatto uomo, crocifisso e risorto! Guardiamo alle molte persone nella Bibbia e nella nostra lunga storia di fede, che non pèrdono Dio nelle avversità. Ricordiamo le persone che noi stessi abbiamo conosciuto o conosciamo, per le quali la fede in Dio ha dato e dà sostegno, orientamento e speranza. Cerchiamo una relazione viva e onesta con Dio, rivolgiamoci a Lui anche con le nostre esperienze dolorose, non importa se con tono di rimprovero.

Soprattutto i Salmi, i 150 canti di preghiera dell’Antico Testamento, ci fanno sperimentare come il popolo dei credenti ringrazi e lodi Dio, canti e suoni davanti a Lui. Lo invoca e allo stesso tempo lo accusa del suo apparente silenzio, della sua lontananza, del suo essere radicalmente Altro.  Molti salmi sono una scuola di preghiera nell’angoscia esteriore e intima. In questo modo anche noi possiamo crescere in una relazione viva con Dio: quando ci ricordiamo di Lui, quando parliamo di Lui, quando contiamo sul suo aiuto, quando colleghiamo a Lui le nostre esperienze, quando lo cerchiamo e chiamiamo – in altre parole, quando preghiamo. Coltiviamo la relazione con Dio nella preghiera personale, domestica, familiare. Cerchiamo la relazione con Lui attraverso la Parola di Dio e attraverso la celebrazione comunitaria dell’Eucarestia. Riunirsi per l’Eucarestia è stato un segno essenziale dell’identità cristiana fin dai tempi degli apostoli. “Chiesa” significa comunità chiamata assieme e riunita attorno al suo Signore.

C’è un altro modo, ed è essenziale, per rimanere connessi a Dio. Cresciamo in una relazione viva con Dio quando facciamo sentire agli altri che siamo vicini a loro, così che sperimentino di non essere lasciati soli. Quando altre persone vivono la vicinanza salvifica di Dio attraverso noi e le nostre cure amorevoli, allora Dio diventa presente anche per noi. In questo modo diventiamo testimoni di Dio nelle nostre azioni, nel nostro amore concreto e vissuto per il prossimo, e noi stessi avremo il dono della sua presenza.

“La nostra cittadinanza è nei cieli“ (Fil 3,20)

La pandemia ha mostrato chiaramente la nostra vulnerabilità, debolezza e mortalità e ha messo in discussione molte delle certezze su cui abbiamo costruito la nostra vita quotidiana, i nostri piani e progetti, nell’economia e in molti altri settori. Questa pandemia può anche essere un campanello d’allarme in un tempo che è fortemente influenzato dalle idee di questo mondo terreno. Pensiamo a vari paradisi sulla terra, come i paradisi delle vacanze, i paradisi dello shopping, i paradisi fiscali, i paradisi del piacere, in cui le persone cercano la realizzazione dei loro desideri. La gente spesso vive e lavora duramente, senza sosta e instancabilmente per arrivare in questi paradisi terrestri. A tale proposito la raccomandazione dell’apostolo Paolo è chiara: “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio “ (Rom 12,2).

Questo “rinnovamento del pensiero” è possibile solo se allarghiamo il nostro orizzonte e guardiamo oltre la nostra vita in questo mondo comprendendo la prospettiva nell’altro mondo, nel cielo, in modo che la vita si realizzi nella sua interezza.

Il paradiso non può essere costruito, appartiene a Dio! In molte parabole Gesù ha chiarito che il regno di Dio è un dono. È il regno dell’amore, che non possiamo fare o produrre, perché l’amore esiste solo come dono. Vedere il nostro mondo dalla prospettiva del cielo è rendersi conto che tutto ciò che è di questo mondo è sempre imperfetto e perisce, mentre l’amore rimane.

“Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!“ (1 Cor 13,13). Rivolgiamoci alla persona, ascoltiamo il grido del creato sofferente. Modelliamo le nostre relazioni dal cielo, dall’amore di Dio!

Dio: il bene più grande, anche nella pandemia

La tutela della salute fisica è necessaria, buona e importante. Il rispetto delle regole in vigore è un segno di maturità, responsabilità, rispetto e amore concreto per il prossimo. Negare e minimizzare i pericoli del Covid è un oltraggio a tutti i malati e a coloro che li aiutano e li assistono; è un oltraggio a quanti sono morti e a quanti li piangono. Vaccinarsi contro il virus è un atto di solidarietà per proteggere la propria salute e quella del prossimo: Papa Francesco e il suo predecessore emerito, Papa Benedetto XVI, hanno consapevolmente compiuto questo atto di solidarietà.

Allo stesso tempo, però, resta il fatto che il Covid ci mette di fronte a una verità che la nostra società trova particolarmente difficile da accettare. La vita umana è e rimane vulnerabile, a rischio, suscettibile e mortale.

Per quanto sia importante, la salute non è il bene supremo della nostra vita. Il bene supremo per noi è il Dio di Gesù Cristo! Davanti a lui anche la morte ha solo la penultima parola. Come esseri mortali, vulnerabili e fragili possiamo imparare nella fede ad accettare i nostri limiti e affidare la nostra impotenza al Dio della vita e dell’amore.

Vale la pena di prendersi tempo – personalmente ma anche come comunità ecclesiale – per approfondire la questione: dove ci tocca il cielo, non come metafora, ma come quella realtà che è Dio stesso? Raccontiamoci l’un l’altro dove il cielo ci ha toccato, non il paradiso sulla terra ma “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano.“ (1 Cor 2,9)

In questo modo, a partire dal nostro atteggiamento verso la vita e dal nostro modo di vivere, il messaggio incoraggiante della risurrezione può raggiungere anche altri: ci dice che dopo il Venerdì Santo viene la Pasqua, ma anche che non c’è Pasqua senza il Venerdì Santo. La forza vitale di Dio vuole agire in noi, proprio dove la debolezza e la malattia, la sofferenza e il dubbio ci affliggono. Mistero della fede: nella morte c’è la vita.

In questa Quaresima 2021 – la seconda sotto il segno della pandemia – incoraggio a ispirare ancor di più il nostro impegno personale ed ecclesiale alla testimonianza del cielo, perché proprio questa prospettiva alleggerisce il nostro modo di essere e di agire e ci rende più liberi, più sciolti, più a nostro agio e più pasquali. Non possiamo e non dobbiamo redimere il nostro mondo! La salvezza viene da Dio, non da noi. Ogni brama di paradiso terrestre si infrangerà al più tardi sulle nostre tombe. La fede nel cielo ci fa fermare e tirare un sospiro di sollievo. Questa fede ci rafforza per testimoniare la vita in un mondo mortale, vulnerabile, incompiuto, in mezzo a una creazione che “geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi.” (Rom 8,22)

Quaresima, la quarantena spirituale

Questa pandemia presenta una certa analogia con il tempo quaresimale. Il termine “quarantena” deriva da quaranta giorni. Anche la quaresima è un periodo di quaranta giorni, una sorta di “quarantena spirituale” dalla forte valenza simbolica, un tempo propizio per guarire da tante cose superflue, per rivedere il proprio stile di vita, per ricercare ciò che conta, cioè i valori essenziali che danno il senso vero della vita e che la fanno crescere.

Come il coronavirus richiede un periodo di cure per riacquistare la salute fisica, così la quaresima è una quarantena favorevole per attivare degli anticorpi speciali: quelli necessari a far risplendere la bellezza della vita umana e cristiana attraverso atteggiamenti di sincerità, apertura, gratuità. Nell’epoca del Covid, rinnoviamo quindi la nostra volontà per una quaresima vissuta bene, da soli e con gli altri, nel digiuno dell’egoismo e dell’indifferenza. Così potrà diventare davvero un esodo pasquale dalla sfiducia alla speranza.

Sempre verso la Pasqua

Molti incontri, lettere, messaggi e conversazioni mi hanno toccato negli ultimi dodici mesi dallo scoppio della pandemia. Sono stato particolarmente colpito da un bambino che ha perso il suo amato nonno a causa del coronavirus. Pietro, nove anni, mi ha detto al telefono con una voce rotta dal pianto: “Perché viviamo, se poi dobbiamo morire?“ Ho parlato con lui a lungo.

Trovo una risposta alla sua domanda solo dalla Pasqua: viviamo per vivere eternamente con Dio. Siamo nati per essere con Lui una volta per sempre: “Caro Pietro, tuo nonno non è semplicemente morto. Poiché Gesù è morto e risorto, tuo nonno vive dall’altra parte della vita; da lì ti accompagna e lì ti aspetta. Anche se nella nostra vita alcune cose possono non riuscire e andare male, anche se una vita in questo mondo finisce a causa di un virus perfido, non esiste un fallimento finale”.

Auguro a tutti noi un cammino fiducioso e deciso verso il centro e il culmine dell’anno liturgico: la celebrazione dei giorni pasquali della sofferenza, morte, sepoltura e risurrezione del Signore.

Tutta la nostra vita ha una sola direzione: attraverso la croce fino alla risurrezione.

Il vostro vescovo
+ Ivo Muser

Mercoledì delle Ceneri, 17 febbraio 2021

 
(tratta integralmente dal sito diocesano all’indirizzo: www.bz-bx.net/it/news/dettaglio/lettera-pastorale-per-la-quaresima-2021)
Lettera di Natale

Lettera di Natale

Il tempo del Covid ci fa riscoprire un Natale più semplice e sobrio, ma soprattutto più profondo e più bello.

Un Natale…

… che ci fa riconoscere il valore delle parole buone

E se in questo Natale particolare provassimo a diffondere il contagio del bene e della speranza? Abbiamo bisogno di dare e ricevere gesti di gentilezza, che aiutano a vivere, abbiamo bisogno di parole che ci infondano speranza e coraggio. Cerchiamo di mantenere le relazioni anche se siamo a distanza, portando serenità e ottimismo. Senza trasmettere ansie ingiustificate ma anche senza illudere nessuno che non esista alcun pericolo.

 

… che regala vicinanza a chi ha più bisogno

Il virus ha fatto molte vittime, ha lasciato ammalati, familiari in lutto, lavoratori senza lavoro, persone cadute in depressione. Ci sono anziani che si ritrovano più fragili e più soli, genitori con figli in età scolare che hanno visto moltiplicarsi i problemi. Famiglie già in difficoltà sono entrate definitivamente in crisi. Ci sono disorientamento e paura, ci sono donne e bambini ancor più esposti a forme di violenza.

Tutte queste persone devono farci riscoprire il Natale nel suo significato originale. In fondo il messaggio del Natale ci dice che il volto di Gesù Bambino è il volto di una persona, di chi è attorno a noi e che forse non abbiamo mai guardato. In questo Natale cerchiamo di scoprire il volto di Gesù nel viso di donne e uomini sofferenti, di far sentire loro la nostra vicinanza. Pensare a chi ha meno di noi – non solo sul piano materiale – è un aspetto fondamentale di umanità e giustizia: mi auguro quindi che questo sia un Natale di altruismo, di attenzione e di generosità attraverso atti concreti. Il nostro vaccino si chiama solidarietà.

 

… nel segno del cambiamento

Il Covid segna una cesura: c’era un prima e ci sarà un dopo, come accade per i grandi eventi della storia. Questo Natale con il Covid ci spinge a interrogarci sui meccanismi del sistema economico e delle relazioni sociali. Non si tratta di salvare il Natale come festa dei consumi. Non facciamo come in passato e riconosciamo invece che in questi dieci mesi il mondo è profondamente cambiato. Anche per questo motivo proviamo a festeggiare un Natale 2020 più semplice e sobrio, e quindi più vero e più bello.  

Questo Natale inedito ci può aiutare a rileggere le nostre convinzioni e abitudini e anche a riconoscere tante cose a cui possiamo rinunciare. Da questo cambiamento potrà nascere il bene per la società, e sarà un po‘ come la nascita del Bambino a Natale, come l’inizio di una nuova storia.

 

… che invita a confrontarsi con il presente

Nella nuova realtà disegnata dal coronavirus, a chi ha responsabilità a livello decisionale è richiesto di affrontare il presente: significa essere pronti a nuove prospettive, a cogliere i segnali che arrivano ogni giorno dalla società, a dare risposte. Di questo atteggiamento abbiamo tutti bisogno. Così questo Natale particolare può aiutare anche a riallacciare legami nella comunità, a ritrovare ciò che ci unisce e che la crisi ha danneggiato: tra le persone, tra le fasce sociali, anche al di sopra delle diverse posizioni politiche. Dobbiamo sforzarci di capire cosa ci dicono le persone, specialmente coloro che portano in sé un carico di ansia e sfiducia. E domandarci: cosa posso fare io per far ritrovare coraggio, speranza e pace al mio prossimo? Chi non devo assolutamente dimenticare in questo Natale 2020? Chi devo ringraziare in modo particolare? Chi ha bisogno di me?

 

… speciale per la “generazione Covid“

I giovani risentono molto dell’incertezza, della mancanza della scuola in presenza e della socializzazione. Ma la “generazione Covid“ merita tutta la nostra attenzione: in questa esperienza ha rafforzato il suo rispetto verso gli altri e il senso di responsabilità personale. L’impegno di molti giovani è stato ed è ammirevole: nei mesi passati ho avuto notizia di segni confortanti e incoraggianti di vicinanza, aiuto e partecipazione! I giovani sono riusciti a fare di un tempo di limitazioni un’occasione di crescita. Perciò in questo Natale complicato c’è un grande regalo che gli adulti possono fare a bambini e ragazzi: mettersi in ascolto, capire il loro punto di vista, i problemi – spesso nuovi – che stanno vivendo con il virus, i loro sogni. E capire come poterli aiutare, anche nella ricerca di senso per la loro vita futura.

Ai giovani rivolgo un invito: non cercate un’alternativa al Natale, ma cercate di vivere un Natale alternativo! Di cuore vi auguro il coraggio e la forza di curare le relazioni, di impegnare per voi e per gli altri il dono di una vita giovane e preziosa, di vincere con fede e speranza le sfide del presente, di farvi ascoltare. Così aiuterete la comunità, noi tutti, a non perdere di vista l’essenziale, anche a Natale.

 

Augurio di Natale

Valgano per tutti noi le parole pronunciate da papa Francesco quest’anno nella solennità di Pentecoste: “Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi”.

A tutti voi auguro una festa di Natale piena di speranza con al centro il motivo di questa speranza: Gesù Cristo, il Figlio di Dio e il Figlio di una Madre terrena.

 

+ Ivo Muser, vescovo

Per una cultura della vigilanza e della corresponsabilità

Per una cultura della vigilanza e della corresponsabilità

Solennità di Cristo Re, 22 novembre 2020

Care sorelle, cari fratelli nella nostra diocesi di Bolzano-Bressanone!

In questa lettera pastorale mi rivolgo a voi con una richiesta che ci riguarda tutti e che per me è molto importante. Le scioccanti notizie di abusi sessuali nella Chiesa in tutto il mondo, di cui si è a conoscenza, hanno infranto un tabù che per troppo tempo ha ignorato le sofferenze delle persone colpite e di coloro che le circondano. Finalmente le vittime hanno trovato ascolto. Finalmente si è iniziato a prendere sul serio le accuse, a indagare su di esse e ad adottare misure adeguate a favore delle persone colpite e del loro ambito di vita. Allo stesso modo sono state emanate norme e misure di diritto canonico più severe per chi ha commesso crimini contro bambini e adolescenti, in modo da garantire la punibilità dei responsabili. È stato abbattuto il muro del silenzio e la realtà nascosta è stata portata all’attenzione dell’opinione pubblica dal grido delle vittime e dai media. Questa realtà è stata ed è dolorosa, e anche vergognosa: ma è bene e necessario che la affrontiamo in modo responsabile, e che lo facciamo anche oggi.

Lontano da una cultura del nascondere

Nel Vangelo di Giovanni troviamo la frase: “Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi“ (Gv 8,32). Dobbiamo tutti chiederci come ci rapportiamo con il potere, l’autorità, la sessualità umana e le relazioni interpersonali seguendo i valori cristiani fondamentali. Ciò richiede un onesto e radicale esame di coscienza sia a livello personale che strutturale, ossia come Chiesa con tutte le sue istituzioni. Allo stesso modo, la società è chiamata a riflettere sui propri valori fondamentali affinché la dignità di ogni essere umano, i diritti umani e i diritti dei bambini e degli adolescenti vengano vissuti e fatti valere. Qui la Chiesa e la società possono e devono entrare in un nuovo dialogo. Senza in alcun modo distogliere l’attenzione dalla responsabilità della Chiesa, non possiamo ignorare il fatto che la maggior parte della violenza con implicazioni sessuali avviene nelle nostre famiglie e nel contesto di parentela e di vicinato. Dobbiamo inoltre prendere atto con particolare preoccupazione del fatto che gli abusi sessuali nei confronti dei minori circolano sempre più spesso attraverso i social media e internet.

Proprio perché l’abuso può accadere e accade spesso e ovunque – dentro e fuori la Chiesa -, è necessario un radicale cambiamento di mentalità, che sia profondamente umano e cristiano: da una cultura dell’ignorare a una cultura del vigilare; da una cultura della non ingerenza a una cultura della trasparenza, dell‘apertura e della corresponsabilità.

Riguarda tutti noi

Esorto tutti i sacerdoti, diaconi, religiosi, religiose, insegnanti di religione, comunità parrocchiali, organizzazioni ecclesiastiche, scuole e convitti, istituzioni e gruppi a mandare un chiaro segnale in tal senso.

La nostra Diocesi vuole sensibilizzare a una cultura aperta al colloquio, affinché l’abuso non rimanga più un tabù e non distrugga la vita delle persone. In una campagna di informazione e sensibilizzazione la Diocesi sta distribuendo manifesti con la scritta “Stop agli abusi nell’ambito ecclesiale”, per l’affissione nelle bacheche e la diffusione attraverso altri media. Invitano le persone a contattare lo Sportello diocesano in caso di sospetti, indizi o casi di abuso. Oltre ai manifesti, specifici volantini informano sugli obiettivi e i compiti del Servizio diocesano per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili e sullo Sportello diocesano.

Con questa campagna la nostra Diocesi ribadisce il giudizio di fondo: tutte le forme di abuso e di violenza sono contrarie allo spirito del Vangelo. Seguendo le linee guida della Conferenza Episcopale Italiana, ci concentriamo sulla prevenzione come nostro compito pastorale peculiare per creare un ambiente sicuro per i bambini e gli adolescenti.

Una priorità per la nostra Diocesi

Tutti i responsabili negli ambiti ecclesiali sono chiamati ad assicurare che al proprio interno sia garantita la tutela dei minori. Il bene dei bambini e degli adolescenti, così come quello degli adulti vulnerabili, ha la massima priorità secondo la visione cristiana di Dio e dell’uomo. La Diocesi si impegna per una posizione chiara e decisa della comunità contro gli abusi sessuali e contro tutte le forme di violenza.

In presenza di sospetti, segnalazioni o casi di abuso in ambito ecclesiale, è necessario contattare immediatamente lo Sportello diocesano, dove saranno definiti e avviati i passi successivi. Ogni segnalazione viene presa sul serio, indipendentemente dal fatto che il caso sia attuale o risalga al passato.

Gli uffici della Curia vescovile, le organizzazioni, le istituzioni e i gruppi ecclesiali, e le congregazioni religiose sono chiamati a tematizzare costantemente nei loro programmi, comunicazioni e offerte la questione della tutela dei minori e degli adulti vulnerabili, della prevenzione degli abusi sessuali e di altre forme di violenza. Da un lato si vuole creare una base di fiducia affinché il tema dell’abuso possa essere discusso apertamente e il tabù venga infranto; dall’altro, si esorta ad avere il coraggio civile di rompere il silenzio davanti a sospetti, segnalazioni o casi di abuso e a informarne lo Sportello diocesano.

Siamo tutti corresponsabili

Nella sua “Lettera al popolo di Dio“ (2018) Papa Francesco chiama tutti i membri della Chiesa ad un impegno attivo per sradicare la cultura dell’abuso dalle nostre comunità. Solo insieme, ha detto il Papa, saremo in grado di avviare le dinamiche necessarie per un sano ed efficace cambiamento.

Il 18 novembre si celebra la “Giornata europea per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale”, il 20 novembre è la “Giornata internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza”. Vi invito a richiamare l’attenzione sulla campagna di sensibilizzazione della nostra Diocesi nella domenica successiva, 22 novembre 2020, solennità di Cristo Re. Siamo tutti corresponsabili della promozione di una cultura della tutela e della sicurezza di bambini e adolescenti, sia nella Chiesa che nella sfera familiare e sociale.

Che la benedizione di Dio accompagni i nostri bambini, i giovani e noi tutti nella nostra responsabilità verso di loro. Non lo si può formulare più chiaramente di quanto fa il Vangelo nella domenica di Cristo Re: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli e sorelle più piccoli, l’avete fatto a me. Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me“ (cfr. Mt 25,40.45).

A tutti noi è rivolto il mandato di Papa Francesco: “Imparare a guardare dove guarda il Signore, a stare dove il Signore vuole che stiamo, a convertire il cuore stando alla sua presenza“ (Lettera al popolo di Dio, 2018).

Dalla parte di Gesù, il nostro Re sulla Croce, stanno solo coloro che sono dalla parte delle persone.

 

Il vostro vescovo

+ Ivo Muser
Solennità di Cristo Re, 22 novembre 2020